Ci sono tre modi per raccontare la marcia silenziosa di ieri sera nel centro di Parma.
Il primo, coinvolgente e toccante, è quello di raccontare una madre in Piazza con la figlia Michelle. Ma quella figlia, come si vede nella foto qui sopra, è oggi solo una presenza virtuale, una immagine sul telefonino da guardare e sfiorare con amore e tristissimo rimpianto. Perchè Michelle non c’è più: i suoi 20 anni furono presi mortalmente e crudelmente a martellate dal 26enne Alberto Munoz.
Il secondo è la rabbia. La rabbia per la sentenza che per quelle selvagge e brutali martellate ha quasi dimezzato la pena all’assassino: da 30 a 16 anni. La sentenze, come sempre, si rispettano. E si rispettano i giudici che evidentemente hanno applicato norme che fanno parte dei codici. Ma rispettare non significa accettare, non domandare, non scandalizzarsi e soprattutto non esclude chiedere: chiedere perchè quel dimezzamento, chiedere se è giusto, chiedere se è adeguata una legge che lo consente…
Il terzo modo è il più difficile e ingeneroso, per chi ha organizzato, per chi ha partecipato e soprattutto per quella madre che con coraggio era in Piazza a chiedere e ringraziare. Lo dico nel modo più crudo: ieri pomeriggio i parmigiani e le parmigiane erano più coinvolti dal rito dell’aperitivo che da questa storia di violenza e di diritti calpestati.
Conosco decine di social-tastieristi pronti a mobilitarsi (e giustamente) per la tragica vicenda di Pamela. Ma per questa ventenne uccisa nella nostra civile e capitale Parma non hanno trovato tempo. E con loro quasi tutta la città: ormai, quando c’è un appuntamento del genere, potrei stilare in anticipo una lista con i nomi dei partecipanti e lo azzeccherei almeno all’80%.
Allora è il momento di prenderne atto. A Parma si sta facendo tanto da parte di tanti: il rischio è che si faccia troppo. Non nel senso che non ce n’è bisogno, purtroppo, ma la paura è che i tanti simili appuntamenti producano assuefazione, stanchezza. Occorre forse che le varie associazioni di donne e di uomini impegnate/i nella battaglia contro la violenza si fermino un momento a riflettere: come per ogni prodotto da “vendere” (e qui è un vendere a fin di bene per la collettività), a volte occorre diferenziare le strategie di “marketing” e di comunicazione.
Ovviamente questo non può e non deve essere un alibi per gli indifferenti. Ma certo è un passaggio da affrontare, se si vuole proseguire la battaglia e renderla più concreta. Quanto ai controriformatori che ancora stentano a riconoscere il femminicidio perfino come parola, o che ironizzano sulle iniziative contro la violenza di genere, si guardino bene quella foto di una madre che può vedere solo sul telefonino il viso di una figlia uccisa a martellate da un assassino cui è stata “regalata” una pena dimezzata.
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