Benedetto Antelami raccontò nel marmo del Battistero, e per l’eternità, i Mesi di una città antica, contadina, operosa e col senso del sacro scolpito nella sua commovente Deposizione in Duomo. Un millennio dopo, a Parma ci sono ancora (per citare un libro di Pippo Mendogni) “I salami dell’Antelami”, ma la città di oggi
è difficile da decifrare perfino nel suo semplice quotidiano, mentre di eternità e di quel sacro, anche solo nei progetti, ci sono ben poche tracce e forse poca voglia…
Un terzo millennio nel quale noi giornalisti ci chiediamo se faremo la fine delle cabine telefoniche o delle videocassette VHS: non che ci si metta a piangere su ciò che ormai non tornerà, ma ci chiediamo che cosa possiamo dire, ad esempio, ai tanti ragazzi che proprio a Parma e proprio col sogno del Giornalismo arrivano da tanta Italia. La soluzione non la conosco. Ma annoto con vero e grande entusiasmo, prima ancora che col piacere dell’amicizia, che uno degli ultimi grandi interpreti di questo Artigianato giornalistico parmigiano (che è stato reale eccellenza) abbia sentito la voglia – appunto un millennio dopo – di scolpire nella carta i Mesi della città del Duemila. Mesi che vanno a comporre mezzo secolo di racconti: Mesi che anche Antonio “Benedetto” Mascolo ha messo insieme limando e scalpellando il materiale di una vita, dalla Gazzetta di sola carta e ancora di piombo al web che della carta può fare a meno (come dimostrò con Parma Repubblica, dopo la lunga eccellente prova da Direttore a Modena, nella Gazzetta 60 km più in là).
Poteva farlo solo lui un libro così, mettendoci insieme sia la parmigianità che lo sguardo esterno sulla parmigianità. Anche perché il suo tragitto Parma-Modena e ritorno è transitato anche da Boston o da Gerusalemme o dai viaggi con i “suoi” teatranti-amici del Collettivo, che anche grazie a lui (e all’apertura mentale e culturale dei Molossi e dei Curti) è poi diventato la stabile e fondamentale realtà di Teatro Due.
E poteva farlo solo lui perché Mascolo, diversamente dalla maggior parte di noi fanatici calcistici, è cresciuto col rugby. Lì si è abituato ad aspettarsi, e a volte a cercare, i rimbalzi della palla ovale, sempre diversi e imprevedibili rispetto alla pur appassionante certezza che “la palla è rotonda”. Ecco allora che il suo lungo e prestigioso percorso giornalistico oggi trova casa nel libro “Tracce di Parma” con Guido Conti come mandante culturale, che a un anno di distanza dalle splendide immagini di Giovanni Ferraguti regala un’altra strenna che è Memoria della città. Ed è una sintesi, provvisoria perché c’è ancora tanto da narrare e inventare, di una vita da “spiazzista”, che ha sempre cercato di spiazzare anzitutto sé stesso: ne prendano nota i giovani cronisti che si apprestano a un mestiere splendido ma nel quale non si deve mai diventare “impiegati” (sia detto con tutto il rispetto per la categoria) innamorati della pigra routine. Quella sì che sarebbe la morte del giornalismo.
In questo battistero di 223 pagine che si divorano, l’ideale zooforo da mostrare all’esterno come prologo e simbolo è il processo per lo scandalo edilizio: padre di tante successive e tristi vicende italiane e di nuovo parmigiane, ma anche esempio non banale e mai valorizzato di un direttore del “giornale dei padroni” che un padrone arrestato ebbe il coraggio di sbattere in prima pagina. O di un presidente che all’imputato che minacciosamente lo ammoniva “Il giudizio della storia sarà più severo con lei che con me” ribadiva serafico “Io non mi spingerei così avanti. L’udienza è aggiornata a domani. Vado a vangare nel mio podere”. Che sembra appunto una scena da Antelami.
Ecco: se c’è una cosa che da lettore, prima ancora che da collega, le Tracce mascoliane mi hanno trasmesso è l’invocazione (non la nostalgia!) di una Parma che sappia avere ancora la stessa ironica intelligenza e lo stesso coraggio. Che è poi il coraggio di Mario Tommasini, più politico dei politici partendo dalla sola licenza elementare; che è poi il coraggio di piccole o grandi storie (cito a caso Csac o Museo della Civiltà contadina, per non parlare delle certezze da rinnovare con nuovi volontari come la “Pubblica”). E’ un libro che fa perfino un po’ incazzare, e sono certo che questo sia fra gli obiettivi di Antonio, nel vedere che a Parma “si può” uscire dalla banalità e pensare a cose da lasciare alla collettività, proprio come ci insegnano e forse ci impongono Antelami, Correggio, Verdi… mentre il lettore accorto non mancherà di notare quanta Parma “importante” manchi, proprio perché la storia migliore da tramandare a volte la fanno i comprimari, che sono tali almeno rispetto alle luci della effimera ribalta cittadina.
Già, perché quello cui ci invita Mascolo è “Un ballo non in maschera”. E’ un appello senza sconti, ma non senza affetto, per una città che ha bisogno di tornare a compattarsi sulle sue cose migliori: la Cultura è decisamente una di queste ed è il collante per le altre, Economia compresa.
Benedetto Mascolo! Come già fece poco dopo l’arrivo a Parma Repubblica scoperchiando la bruttissima vicenda di Bonsu, con uno scoop nazionale, oggi Antonio – eterno cronista adolescente – riporta Parma davanti allo specchio, perché riflettere sulle storie di ieri è sempre il modo migliore per guidare oggi le riflessioni sul domani.
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