Colpisce già dal titolo, ma questa volta non vi parleremo di una furberia editoriale, bensì della provvidenziale
iniziativa di una giornalista di razza come Lilli Gruber, che ha finalmente abbattuto un muro di tabù e pregiudizi per affrontare direttamente uno dei temi più scottanti e insieme più ignorati o sottaciuti dei nostri tempi: la pornografia.
Ma come?, dirà qualcuno: non è forse la scoperta dell’acqua calda e di ciò che da decenni accompagna la “formazione sessuale” di generazioni e generazioni, soprattutto di uomini? Non esattamente, perché se indubbiamente è vero che riviste e videocassette hard hanno fatto per anni da “nave scuola virtuale” per chi di sesso non sentiva parlare in famiglia (ovvero i più, in un Paese un po’ bigotto e in questo settore arretrato rispetto a molte altre nazioni), è altrettanto vero che l’avvento del digitale ha moltiplicato e in parte snaturato ciò che per decenni è stato giudicato inevitabile o innocuo. E già allora ci sarebbe stato da discutere…
Dati e interviste alla mano, la Gruber spiega che web gratuito (almeno in parte) e diffusione degli smartphone hanno prodotto un micidiale cocktail, che porta contenuti porno fino a pre-adolescenti di 11/12 anni. Con effetti letali, perché non solo i video raccontano una sessualità poco aderente alla realtà e con l’assenza di ogni elemento affettivo, ma spesso si spingono anche ad illustrare situazioni di violenza (quasi sempre con le donne come oggetto) che finiscono per influenzare in modo disastroso l’approccio a sesso e sentimenti in un’età già così delicata.
Gruber descrive o si fa raccontare, senza ipocrisie anche di linguaggio, i vari aspetti che ruotano intorno a questo business, ad iniziare appunto da quelli economici. E cerca di far capire, soprattutto alle ragazze, che nulla è davvero privato e gratuito, nel momento in cui ad esempio si accetta di condividere proprie immagini: cosa che può anche essere accettabile, ma solo se la situazione e i rapporti con il partner sono di assoluta affidabilità. Quanto al gratuito, laddove non si paga si forniscono comunque dati preziosi sulla nostra privacy e sui nostri gusti, anche sessuali, che qualcuno certamente andrà a monetizzare alle nostre spalle.
Il fenomeno è ormai diffusissimo a livello planetario: come pensare, allora di uscirne? Se un adulto e un’adulta sono o dovrebbero essere in grado di autogestirsi, dovremmo quantomeno pensare ai più giovani. E qui qualche rimedio concreto potrebbe davvero esserci: uno è mettere a pagamento i contenuti, cosa che renderebbe più problematico l’approccio dei giovanissimi. Ma poiché si tratterebbe di un ostacolo comunque aggirabile dai più smaliziati tecnologicamente, l’alternativa non può essere che quella di una vera educazione sessuale e affettiva nelle scuole, fin qui respinta soprattutto da una certa parte politica. Ma la posta in palio, ovvero la crescita dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, è troppo importante per fermarsi ai tabù o alle esigenze di bottega politica di questa o quella fazione.
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