Se ne parla da 80 anni ma nessuno la vuole. La pacificazione è ancora un’utopia che insegue l’Italia dalla fine del fascismo: eppure,

non sembrava e non sembrerebbe un’impresa impossibile, visto che si trattava di prendere le distanze da una dittatura, della quale in teoria nessun cittadino sano di mente dovrebbe auspicare il ritorno, specie pensando che quella dittatura produsse una guerra che mandò a morire quasi il quadruplo dei giovani russi mandati a morire da Putin in Ucraina (tanto per rapportarci ai giorni nostri).

Sul fascismo, in Italia, non ci sarebbe quindi neppure bisogno di discutere. Così come, dall’altra parte, non potrebbe non esserci l’autocritica di chi fin dal 1948 sposò nell’unità socialcomunista il mito di Stalin, altro nefasto dittatore, con i progressivi dubbi e strappi fra Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968 e Polonia 1981. Le dittature fanno schifo, di qualunque colore siano. Punto: chi inneggia a Predappio mi fa pena come chi inneggiasse a Stalin. Non sembra molto difficile da capire.

Idem sul terrorismo, che non può che essere sempre esecrabile. Ci sono due capitoli, sui quali certamente non sappiamo tutto, ma che sono “ben” distinti, nella loro comune seppur differente come modalità scelta della tragica violenza. Nessuno (neppure chi all’inizio esprimeva diffidenza o morbidezza di giudizio) può discutere che vi sia stato un terrorismo rosso, legato a BR e altri gruppi, con una serie di azioni e attentati culminati nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta. Una catena di sangue che passa anche – fra gli altri – per Walter Tobagi, Guido Rossa, Mario Calabresi (anche qui ci sono stati dubbi ma la verità sembra ormai fuori discussione), senza dimenticare la stagione delle “gambizzazioni”, ad esempio ai danni di Indro Montanelli.

E poi (anzi: prima, visto che dobbiamo tornare quanto meno a Piazza Fontana), c’è al di là di ogni ragionevole dubbio la stagione del terrorismo neofascista. Che, pur senza certo voler stilare classifiche dell’orrore, scelse spesso in modo ancor più vigliacco, se possibile, i propri bersagli fra la gente comune, con le bombe nelle banche, nelle piazze, sui treni. Chi non partisse da queste due certezze, in qualunque dibattito su quelli che in Italia abbiamo definito anni di piombo, e di bombe, non meriterebbe di essere ascoltato perché sarebbe certamente in malafede.

Anche laddove non si è potuto (o voluto) arrivare a condanne di singoli, come ad esempio in Piazza Fontana, sentenze definitive e indiscusse hanno chiarito in modo nettissimo la matrice neofascista di quelle bombe. Ed è da qui che dobbiamo partire anche per affrontare il caso più controverso e discusso che è la strage del 1980 alla stazione di Bologna, dove ci sono oggettivamente alcuni dubbi (ma ci sono anche per il caso di Yara o per Olindo e Rosa, senza che ciò metta davvero e concretamente in dubbio il lavoro di magistrati e giudici di quei casi). Proprio per affrontare i dubbi, però, bisogna prima affrontare le certezze.

Le condanne definitive lo sono, fino a prova contraria così importante da imporre una revisione del processo. Quindi, a oggi, dobbiamo credere ad esempio alla colpevolezza di Fioravanti e Mambro a Bologna quanto dobbiamo credere alla colpevolezza di Bonisoli e Faranda (per citare due persone che sono venute più volte a Parma, confrontandosi ad esempio con la figlia di Aldo Moro e col figlio di un carabiniere della sua scorta) per i reati ascritti a loro e alle BR di cui facevano parte.

Il fatto che su Bologna ci siano stati nuovi processi e nuove condanne di terroristi neofascisti (Cavallini, Ciavardini, Bellini) va esattamente nella direzione opposta rispetto a chi parla di teorema anti-destra: se le prime condanne (Fioravanti e Mambro, oggi parzialmente in libertà senza che nessuno strepiti come avviene in altri casi) fossero state figlie di un teorema, non ci sarebbe stato alcun interesse ad aprire nuovi dibattimenti con nuovi imputati, col rischio che in questi processi emergessero smentite delle ricostruzioni e delle condanne precedenti. Invece si sta delineando un quadro che porta sempre lì, passando per quella orribile struttura che è stata in Italia la P2 di Licio Gelli.

Si è parlato di ipotesi alternative, quali la pista palestinese. Certi elementi obiettivamente non mancano, ma per ora non si è andati oltre una discutibile commissione parlamentare (quella del dossier Mytrokhin), mentre semmai sono interessanti le osservazioni del “nostro” Danilo Coppe, l’esplosivista parmigiano che ha messo in rilievo alcune incongruenze anche importanti.

Giusto, quindi, essere laicamente aperti ad ogni nuova ipotesi (oggi in Italia governa la destra, ma dopo quasi due anni non risulta che siano emersi nuovi documenti fin qui segreti e in grado di ribaltare la ricostruzione delle sentenze. Quindi, è certamente legittimo elencare ciò che non torna, ma ripeto che la ricostruzione giudiziaria non sempre può essere al 100%: a Parma ricordiamo ad esempio la strage Carretta nella quale i tre cadaveri non sono mai stati ritrovati, eppure la persistente tesi di molti parmigiani che ancora credono alla famiglia in qualche paradiso fiscale incurante della sorte e poi della morte di Ferdinando non ha trovato alcun appiglio concreto.

Sono invece senza concretezza altri presunti argomenti, compresi quelli contenuti in alcune superficiale lettere alla Gazzetta. E sono insensati (o appunto in malafede) le “certezze” di chi dice che a Bologna le cose sono andate diversamente. E’ tragicamente risibile, ad esempio, la tesi secondo cui Fioravanti e Mambro sarebbero da ritenere innocenti perché hanno confessato tanti altri efferati crimini ma non la strage: semmai, ci si stupirebbe del contrario, visto che nessun terrorista neofascista ha mai ammesso uno di quei crimini orrendi. Dietro alle bombe neofasciste c’è infatti una tripla vigliaccheria: quella della mente di chi ha ideato, quella della mano di chi ha agito e quella del silenzio di chi ha taciuto e continua a tacere. Non è un caso se, fra lacune scolastiche e fake news, qualche anno fa un sondaggio ha fatto scoprire che per molti studenti delle superiori la bomba a Piazza Fontana era opera delle Brigate rosse…

E l’ipotesi dei terroristi neri incastrati a Bologna da servizi segreti, P2 ecc.? Potrebbe darsi, ma i primi che probabilmente non hanno detto tutto ciò che potrebbe chiarire questo rapporto perverso e non limpido sono proprio gli esponenti del neofascismo degli anni ’60/’80: se tacciono, qualche motivo ci deve essere, ed evidentemente non è del tutto a loro favore. Oppure sono frenati dalla paura o dai ricatti, ma il risultato non cambierebbe. Resta un dato di fatto: tutti i depistaggi dal 1969 in poi erano volti ad alleggerire responsabilità di destra, e di solito non si depista per coprire un innocente.

I dubbi, del resto, li abbiamo anche sul sequestro Moro. Non sull’azione in sé, che è certamente ascrivibile ai brigatisti rossi, bensì a possibili interferenze nei 55 giorni del sequestro, a loro volta forse a insaputa degli stessi sequestratori o della maggior parte di loro.

Sapete qual è la grande differenza, in questa competizione dell’orrore? Che a sinistra qualcuno, per la precisione Rossana Rossanda, ha avuto (proprio nei giorni del sequestro Moro del 1978) il coraggio e l’onestà intellettuale di spazzar via le ipocrisie della sinistra mettendo nero su bianco che i terroristi appartenevano allo stesso “album di famiglia” di tanti gruppi e movimenti di quella parte politica. Oppure (e su YouTube ne potete trovare qualche traccia), perfino chi da quella violenza cieca e vile è stato colpito, come Manlio Milani che nella strage di Brescia perse la moglie, ha saputo elevarsi fino a farsi carico di alcune colpe in quella stagione violenta anche solo verbalmente (“Urlavamo slogan sui fascisti morti, e quindi anche noi abbiamo contribuito a quel clima”). A destra, invece, quel coraggio è fin qui mancato, e allora torna utile ancora una volta una frase di quello scrittore di destra – chiaro e con la schiena dritta – che fu Giovannino Guareschi, che apprestandosi a pagare in carcere il proprio debito con la giustizia per avere diffamato Alcide De Gasperi (verdetto forse giusto, ma processo certamente iniquo nei confronti dello scrittore) ebbe la forza di dire: “Ci sono momenti in cui, per restare libero, un uomo deve saper prendere la strada della prigione”… Ecco: la pacificazione in Italia non può non passare da ammissioni e autocritiche dei protagonisti (come moltii terroristi rossi hanno fatto, anche se non tutti) e da un’onesta rivisitazione dell’album di famiglia, come Rossana Rossanda ebbe il coraggio di fare nell’ormai lontanissimo 1978.

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