Comunque la pensiate, che lo abbiate amato o detestato, non potreste pensare di capire l’Italia del 2024 senza capire i 30 anni nei quali la politica italiana (e non solo la politica) è stata caratterizzata, sovrastata e condizionata da Silvio Berlusconi. Che è stato contemporaneamente molte cose:

è stato inizialmente imprenditore edile di successo con trovate avveniristiche (lascio momentaneamente da parte il tema della provenienza dei primi capitali, perché – qualunque fosse – avrebbe potuto certamente influenzare le sorti imprenditoriali ma non la sua ricetta, vedi le soluzioni di Milano 2). Poi è stato imprenditore-innovatore nel campo televisivo, con la vista più lontana di imprenditori-editori di più lungo corso. Poi è stato presidente di calcio capace di portare rapidamente un Milan da quinto posto ai vertici europei e mondiali: anche qui, si dirà, grazie ad un ampio uso di capitali; ma anche grazie a idee coraggiose (su tutte quella di affidare una squadra miliardaria al semisconosciuto Arrigo Sacchi reduce dal suo bel Parma di serie C e B) che gli hanno permesso di primeggiare anche su avversari certo non meno facoltosi (gli Agnelli della Juve, ad esempio). Infine, appunto, l’avventura politica: sconsigliata, sbeffeggiata e sottovalutata da amici e avversari, ma chiusa con uno strepitoso successo immediato (le elezioni 1994 della discesa in campo e de “L’Italia è il Paese che amo”).

Da lì, seppur fra alti e bassi, Berlusconi ha contrassegnato ben tre decenni della politica nazionale, fino alla morte e quasi oltre la morte, se è vero che il suo partito Forza Italia vive tuttora di manifesti e slogan che conservano il suo volto e il suo nome.

Ecco: partiamo proprio da qui, per capire quanto Berlusconi abbia rivoluzionato la politica, creando la nuova forma del partito-azienda e, almeno in parte, del partito-persona. Neppure i protagonisti principali della nostra storia politica (da De Gasperi a Berlinguer a Craxi) erano mai riusciti, pur con le loro carismatiche personalità, a sostituirsi alla struttura dei rispettivi partiti. E non ci si erano nemmeno probati, a parte forse qualche tentazione craxiana, ma sempre all’interno di un partito strutturato e con storia e strutture ben più ampie come il PSI.

La figura del leader-tycoon è stata politicamente deleteria (opinione personale, ovviamente, ma certo abbastanza supportata dai fatti), nel senso che ha reso a tratti quasi inutili le liturgie di partito, che spesso erano effettivamente obsolete e pesanti, ma che al contempo garantivano una sorta di apprendistato graduale che a sua volta richiedeva il merito per emergere. E non starò qui a infierire su come invece certe candidature siano emerse con percorsi diversi; soprattutto ma non solo al femminile, se pensiamo alla proposta come ministro della giustizia del suo avvocato poi condannato per corruzione in atti giudiziari…

Le 632 pagine che Filippo Ceccarelli ha unito in “B. Una vita troppo” (titolo azzeccatissimo anche se in copertina riecheggia un po’ troppo il libro di Vittorio Testa per Diabasis) sono una lettura lunga quanto interessantissima e quasi doverosa, per chi appunto voglia injterrogarsi sull’Italia 2024 oltre gli slogan da social-Bar sport. Proprio come Testa, Ceccarelli non può fare a meno – e in più di un’occasione – di sottolineare o far percepire la simpatia che a volte Berlusconi instillava anche negli avversari.

Certo, poi non si può giudicare fermandoci a questo, come invece molti adoratori tuttora fanno. Proprio perché è giusto riconoscere, come abbiamo fatto all’inizio, le doti perfino geniali dell’imprenditore, non si può non rimarcare la delusione che deriva dall’unico vero fallimento delle sue tante avventure: appunto quella di premier, che non è mai riuscito a ottenere per il Paese quei risultati che invece gli riuscivano così facili negli affari suoi. Colpa delle resistenze burocratiche ? Certamente hanno giocato anche quelle, ma il Berlusconi di edilizia, tv e calcio le avrebbe superate di slancio, se davvero si fosse messo al servizio del Paese con lo stesso spirito con cui conduceva le sue aziende.

La verità vera esce proprio dalle tante pagine di Ceccarelli. La verità emerge dal mettere insieme anche i fatti apparentemente secondari, dall’elencare nello scorrere dei tre decenni le barzellette, i bunga bunga, gli annunci ad effetto quasi mai davvero concretizzati, l’apparire più dell’essere… Ed è una verità perfettamente in linea con tutti gli altri aspetti del personaggio, al quale forse premeva davvero sentirsi ammirato ed amato: ma questo era il fine, del quale non gli importava il mezzo. Fosse anche, appunto, una battuta (specie per il pubblico di bocca facile, capace di sorridere per il cucù alla Merkel o le corna nella foto di gruppo del G7 o per la battutaccia sul fisico della stessa Merkel o delle doti di amatore sciorinate per portare a Parma l’Efsa vincendo la concorrenza della Finlandia. Roba buona, appunto, per incantare una buona fetta di italiani (soprattutto quelli allevati con la cultura delle tv commerciali), insieme al fascino dell’uomo di successo. Ma se poi si guarda alla sostanza, non si può certo dire che il Paese sia cresciuto granché: né economicamente (anzi vi fu l’orlo del baratro nel 2011, alla faccia di qualunque racconto di “golpe” europeo) né culturalmente. Anzi, il trionfo dell’individualismo che ha pian piano scalzato il senso della collettività è proprio figlio del berlusconismo. E’ invece da dividere a pari demerito con l’opposizione quell’incremento della divisività che oggi prosegue ed è quotidiana e pessina colonna sonora del nostro dibattito politico.

“Una vita troppo”, appunto. Anche perché, se gli occhi non sono stati foderati di prosciutto, non si può pensare che da Mangano a Dell’Utri, al già citato Previti a Ruby alla frode fiscale con condanna definitiva sia tutto frutto dell’accanimento giudiziario, che pure c’è oggettivamente stato ma che era in parte bilanciato dalle leggi ad personam e dalle altre strategie processuali che hanno sottratto Berlusconi a qualche sentenza che sarebbe invece stato interessante ascoltare e valutare.

Un genio. Che sarebbe sbagliato definire tout court genio del male, perché a suo modo Berlusconi ha spesso cercato anche un’immagine positiva (e chi ha lavorato con lui nei vari campi gli ha sempre riconosciuto questa straordinaria carica umana). Semmai, genio per sé e non per l’Italia, che infatti oggi farebbe bene – ad iniziare dai suoi eredi politici veri o presunti – a trattenere gli stimoli più positivi di un uomo con qualità certo superiori alla media italica (e alla generale mediocrità politica di oggi). Ma che dovrebbe anche fare i conti, al di là delle patetiche imbalsamature politiche più prevedibili per uno Stalin o per un Mao, a studiare seriamente che cosa sono stati questi 30 anni nel bene e nel male. Per andare oltre B, e passare alla C di Comunità: che è ciò di cui l’Italia di oggi ha bisogno.

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