Per fortuna se ne è ricordato il Corriere della sera, altrimenti il 4 settembre della “cultura” sarebbe stato assorbito sui media dalla fondamentale vicenda Sangiuliano-Boccia. E invece quella di oggi è una ricorrenza specialissima, che dovrebbe mobilitare la Cultura italiana (quella vera) con tanti spunti di riflessione anche per la vita di tutti noi… Già, perché

il 4 settembre del 1964 alla Mostra cinematografica di Venezia esordiva un film destinato a lasciare il segno nella storia del Cinema italiano e non solo: il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.

Per capirne l’importanza, occorre premettere che Pasolini, in quel 1964, era poco più che un regista debuttante: aveva esordito appena tre anni prima con Accattone, cui erano seguiti Mamma Roma e poi (quasi in contemporanea con lo “strano” esperimento a quattro mani de La rabbia con Giovannino Guareschi) La Ricotta, che si era portato dietro grane giudiziarie e polemiche per avere affrontato il tema della Crocifissione, all’interno di un set cinematografico, in un modo che molti “benpensanti” avevano giudicato irrispettoso ai limiti del vilipendio.

Immaginatevi dunque quale tipo di aspettativa potesse essersi formato alla notizia che, immediatamente dopo La ricotta, Pasolini avrebbe realizzato un film addirittura e totalmente imperniato sul Vangelo. Lo stesso Guareschi, nel clima che aveva opposto i due con La rabbia, pronosticò che “Pasolini avrebbe portato Gesù non sullo schermo ma sullo scherno”.

Ma questa volta Giovannino si sbagliò di grosso. Del resto, oltre alla grande serietà di lettura e di studio tipica di Pasolini, il film non nasceva dal nulla, ma da una serie di contatti con la Pro Civitate Christiana di Assisi: un connubio apparentemente strano, caldeggiato anche da ecclesiastici importanti e forse a loro volta un po’ diffidenti (come il card. Lercaro), nel clima che nella Chiesa si era creato dopo l’elezione di Papa Giovanni XXIII. Il primo aspetto del film che spiazzò i più prevenuti fu la quasi assoluta fedeltà al testo di Matteo, il vangelo prescelto.

Ma fedeltà, per Pasolini, era insieme rivisitazione, per dirla con un esempio di quegli ossimori a lui così cari come filosofia. Così, dopo un deludente sopralluogo in Terrasanta, il luogo principale del film divenne Matera, insieme ad altri luoghi di quel Sud Italia arcaico che Pasolini sentiva perfetto per ricreare le atmosfere del racconto su Cristo. Poi, da restare senza parole, la scena della madre di Cristo davanti alla croce, nel suo dolore muto e assoluto: quella madre è interpretata da Susanna Colussi, amatissima madre di Pasolini. E non si trattò certo, come fu per qualche lettura superficiale, di una indiretta identificazione fra Cristo e lo stesso Pasolini, bensì di una scelta imprevedibile e coraggiosa, che proprio in quella scena finì per dare un risultato parallelamente simile a quello del dolore muto ed intensissimo, nella scena finale di Mamma Roma, di una vera e grande attrice quale Anna Magnani.

Lascio agli esperti di cinema le annotazioni tecniche (lunghi primi piani, particolarissima colonna sonora…), e ancor meno mi avventuro in dissertazioni teologiche. Ma mi mi limito a dire due cose: il film è ai miei occhi straordinario, e io spero che (dopo la carrellata pasoliniana di due anni fa realizzata a Parma grazie a Primo Giroldini) ci possa essere l’occasione di una nuova proiezione accompagnata da un dibattito, secondo un rito che sarebbe molto utile recuperare per la nostra collettività. La seconda cosa è che, al di là di auspicabili eventi pubblici, il Vangelo di Pasolini merita di essere (ri)visto anche 60 anni dopo, perché ci parla con attualità perfino maggiore di allora.

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