100 morti, poi 500, ora più di 700 morti a Parma. E sono morti per niente…
Dopo 40 anni da cronista, ho vissuto insieme a tutti voi una strage che ha moltiplicato per 30 volte la tragedia del Cattani che ci sembrava la più tragica e irripetibile pagina della nostra storia recente. Ci siamo visti sfilare sulle pagine della Gazzetta, tragicamente gonfiate di necrologi, volti conosciuti e a volte anche cari. Abbiamo perduto un piccolo Consiglio comunale di politici di tutti gli orientamenti ma di comune impegno ed entusiasmo (Zannoni, Bigliardi, Ferraroni, Bocelli, Rizzardi…): pagine di storia cittadina, nomi spesso contrapposti ma che hanno dato tanto del loro tempo per la collettività.
Ieri, quando ho visto il titolo della Gazzetta con la “non-notizia” più bella (A Parma oggi non ci sono stati decessi), l’ho condivisa sui social con gli occhi lucidi. Nei miei decenni di lavoro, mi era capitato – a parte quando il destino ci ha portato via colleghi cari – solo nella buia sera della morte di Tommy. Oggi sono lacrime di sollievo, di una gioia che pensavamo quasi di non poter più provare, nei giorni in cui leggevamo e raccontavamo di 10, 20, 30 morti ogni giorno, nell’incubo che avvolgeva intanto altre parti d’Italia.
E’ finita? No, ancora no. Non solo perchè non si può escludere che i dati dei prossimi giorni portino ancora lutti, legati soprattutto ai contagi delle settimane scorse, ma soprattutto perchè la fase 2 che bussa ormai prepotente alle porte avrà con sè inevitabili rischi di nuovi contagi. Anche se tutti ci auguriamo che i primi caldi possano finalmente “impigrire” questo virus bastardo e subdolo.
Ma se anche quello di ieri fosse davvero il nostro definitivo “Ground zero”, ripartire non significherà solo prestare attenzione a rischi di nuovi contagi, mascherine, distanze ecc. C’è qualcos’altro da rifondare e da ricreare, anche se proprio nei giorni più tristi c’eravamo illusi che da quella catarsi potesse crearsi, fra tanti lutti, almeno una cosa positiva. C’era la solidarietà verso le famiglie colpite, c’erano gli applausi ai balconi, gli striscioni, l’emozione vera ed intensa per un Inno di Mameli davanti al Pronto soccorso con la nostra grande ammirazione per chi dentro quell’ospedale teneva salda, a volte letteralmente a mani nude, la trincea del collasso delle strutture sanitarie.
Non sembrava solo retorica: sembrava qualcosa entrato davvero e per sempre dentro di noi. La consapevolezza che quella grande tragedia collettiva dovesse originare una nuova e altrettanto collettiva solidarietà.
No, non è stato così. Sono bastate poche settimane per veder “rifiorire” sui social egoismi e lamentele, livore e insofferenza. Per carità: è sotto gli occhi di tutti che l’emergenza sanitaria, anche se fosse definitivamente alle spalle, ha comunque enormemente contagiato anche il nostro tessuto economico e sociale. Ci sono persone davvero in difficoltà, che reclamano giustamente aiuti immediati.
Ma anzichè lo spirito di reciproco aiuto, che il nostro Paese seppe ad esempio estrarre nel dopoguerra mettendo insieme le diverse idee per trarne la sintesi migliore come nella nostra Costituzione, siamo ben presto tornati alle meschinità di sempre e forse anche peggio. Le inconcludenze e le assurde polemiche della politica, le lamentele comprensibili ma a volte scomposte legate alla crisi economica, e poi l’odio assortito per i motivi più disparati fino al culmine degli odiosi e offensivi commenti su Silvia Romano, ben diversi da critiche o dubbi legittimi come su ogni questione.
Non è così che si può ricominciare. E non è neppure così che si potrà far ripartire l’economia. Il coronavirus ci ha insegnato che a volte si è tutti insieme anche se molti non lo vorrebbero: e non è un insegnamento da poco. La morte, unica vera certezza, ha senso solo se fa capire meglio la vita: non cogliere la lezione di questi mesi da incubo sarebbe davvero il contagio peggiore.
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