Uno esordisce spiegando che non guarda più le partite della sua “Beneamata” dal 2010. L’altro si spinge a confessare che una volta, dopo essere incespicato, venne aiutato a rialzarsi da un signore alto, e gli parve di riconoscere nel suo soccorritore
lo spirito di Giacinto Facchetti.
Non ci si stupisce, quindi, se i due relatori all’Inzani di Moletolo ammettono poi che il problema è ormai patologico e psichiatrico. Ma nessuno quasi ci fa caso, perché la quasi totalità del pubblico è lì perché da anni alle prese col medesimo problema… Può semmai cambiare la tonalità del tifo calcistico (e infatti, in quel coro nerazzurro, io che sono cresciuto con la poesia calcistica di Gianni Rivera e del suo Milan mi tengo in disparte) ma l’approccio e i sintomi sono spesso i medesimi.
Eppure (pensa che complimento gli vado a fare…!), ascoltando e poi scorrendo le pagine scritte da Michele Brambilla e Leo Turrini a tratti vien quasi voglia di essere un po’ interisti… Perfino per una bruciante sconfitta, come quella recente di Istanbul nella finale di Champions, che gli interisti hanno avuto la forza di trasformare in legittimo orgoglio.
Il loro Romanzo Inter, edizioni Minerva, come il racconto a voce a Moletolo guidato da un altro “malato” di Inter (il direttore della Gazzetta Claudio Rinaldi), non è infatti solo un gustoso saggio di abilità professionale, che sul libro prende la forma di uno scambio epistolare ben congegnato anche per come ci ricorda, a scanso di equivoci sugli autori e per noi lettori, che ovviamente la realtà sullo sfondo – ad esempio il sequestro Moro – era e resta più importante. Ma se questo è ben chiaro a tutti, e tanto più a due persone che hanno trascorso la loro vita nei giornali, resta poi quell’irrazionale, infantile e a volte inspiegabile legame con un pallone, con una maglia e con i suoi campioni.
Campioni veri (dalle bandiere Mazzola e Facchetti al Fenomeno Ronaldo, grandissimo e sfortunato), allenatori (da HH a Mourinho passando per la semplicità dei Simoni e dei Bagnoli), presidenti e dintorni (dai Moratti al rimpianto Peppino Prisco): il romanzo ha mille personaggi, e perfino le “ciofeche” che fecero disperare i tifosi nerazzurri assurgono a comparse tanto inefficaci sul campo quanto ricordi oggi affettuosamente ammorbiditi dal tempo, perché il tifoso vuole bene innanzitutto alla maglia e quindi – di riflesso – a chiunque abbia sentito il desiderio di indossarla, pur se con risultati assai differenti.
Leggere questa storia proprio nei giorni in cui le cronache legano al calcio un’altra e ben più sgradevole patologia con il calcioscommesse, ma anche con il mercato drogato dalle società arabe, con i bilanci in affanno, con lo strapotere dei procuratori e con le idee malsane di SuperLeague ci restituisce in fondo la dimensione vera del calcio. Un “giuoco”, come si diceva una volta con la “u”, capace di tenere avvinti e anche di educare, se ben si interpreta il senso delle vittorie e delle inevitabili sconfitte. Quello che, non me ne voglia l’amico Michele per la citazione qui non ortodossa, Gianni Rivera definisce “il calcio bambino”: quel calcio dell’infanzia che anche nella semifinale dei Mondiali ti fa venir voglia di scartare tutti gli avversari tedeschi, prima di rinunciare alla folle idea lanciandosi comunque in avanti dove il gol arriverà davvero grazie al passaggio di un interista doc come Boninsegna.
Già, perchè nell’Italia delle mille divisioni il calcio, quando riusciamo a schierare una buona Nazionale, è anche una delle poche cose che insegna agli italiani a restare uniti al di là delle maglie di provenienza. E questa no che non è una patologia, ma anzi sarebbe da applicare pure alla vita di tutti i giorni di questo Paese…
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